Demolire l’edificio tecnologico

2025

Oggi è chiaro: avendo delegato in maniera quasi irreversibile le capacità, le responsabilità decisionali e perfino i nostri desideri a sistemi tecnici sempre più pervasivi, potenti e imperscrutabili, abbiamo finito per farci trascendere e dominare da essi. Se l’unico criterio intrinseco allo sviluppo tecnico risponde agli ordini di efficienza, massimizzazione delle prestazioni e utilitarismo, allora il rischio concreto è che la sua potenza divoratrice spazzi via l’autonomia, la diversità e le contaminazioni del corporeo e del sensibile.

L’asservimento tecnologico nell’epoca dell’intelligenza artificiale ha come funzione principale quello di enunciare la verità, così come riti, profezie, miti e discorsi religiosi. Diffondendosi la convinzione che la tecnica fornisca le descrizioni e le analisi più accurate, la sua sacrosanta affidabilità riduce, simultaneamente, le capacità cognitive e le intuizioni degli esseri umani.

Inoltre, le valutazioni e le raccomandazioni su quello che ci sta attorno sono sempre più affidate ad algoritmi: dalla medicalizzazione sui corpi ai mezzi di distrazione di massa, passando per la noia urbanistica fino all’infimo e brutale sviluppo del settore militare, solo per citare alcuni esorbitanti esempi. Con l’infallibile e instancabile trattamento di dati e informazioni delle intelligenze artificiali, le nostre capacità di vedere il circostante divengono limitate. In brevissimo tempo si è passati dal trattamento consultivo dei dati proposti dalle stupidità artificiose al loro uso incriticabile. Questa conseguente pragmatica superiorità rende ineluttabile il nesso fra verità e potere. A essere resa obsoleta e dimessa è niente meno che la nostra capacità di intuizione e di immaginazione. E questo, è il peggiore dei guai.

Come è possibile non vedere nella tecnica la fortificazione di una tendenza antica come il mondo, cioè quella di standardizzare i comportamenti? Si omologa il linguaggio per meglio essere idonei a farsi sfruttare; si uniformizza la cultura per consumare meglio i prodotti esposti nelle vetrine dei negozi; si adegua l’informazione imperante per rendere più accattivanti gli aggeggi tecnologici e scientifici; si adatta il sapere alla formazione permanente per renderla insipida, generalizzata e senza importanza, rendendola affascinante solo se presenta aspetti tecnici e numerici.

Questo conformarsi alla realtà porta all’ossessione del cambiamento tecnico continuo, quell’obsolescenza programmata dove gli oggetti a nostra disposizione non devono durare. Per questo si cambia (o lo si vorrebbe fare) spesso auto o il telefono, così come si cambiano spesso opinioni (le idee sono questione ormai rara) laddove cambiano assiduamente le informazioni.

La società tecnologica ha fatto della crescita il suo oracolo: crescere, ma in fretta, dove lo spettro della macchina ha impregnato qualsiasi attività, portandoci a seguire i suoi ritmi per essere al passo della cosiddetta modernità.

Lo spirito della tecnicizzazione generalizzata della società nasce anche dal rifiuto di tantissimi individui di esprimere critiche e dubbi sull’operato della tecnica, come se il corso ancestrale di scienza e tecnologia non possa essere ostacolato. La fede nello scientismo e nella statistica ha ridotto l’esperienza umana colonizzando l’immaginario. Da ciò deriva la nostra dipendenza da sistemi tecnici che ci mantengono in (quale?!) vita ma che riducono la capacità di goderne.

Come non vedere cosa provoca la realtà di schermi asettici? Un ambiente costituito da smartphone, tablet, mega-schermi e computer fa entrare l’essere umano in un mondo uniforme, un universo autoreferenziale. Le immagini che consideriamo reali sostituiscono qualsiasi esperienza sensibile come un simulacro. False notizie per corpi abituati alla ginnastica dell’obbedienza.

Gli individui vivono la tecnica come una sorta di destino inevitabile, di fronte al quale non si può fare nulla. La mitopoiesi della tecnica sembra una sorta di intruglio fra speranza e paura. Per diventare sistema, le credenze sviluppate nei confronti della tecnica si tramutano in un’adesione incondizionata: l’essere senziente non è più chiamato a compiere azioni etiche, ma in modo anche inconscio fornisce prestazioni che alimentano il sistema stesso. Facile comprendere che la tecnica sia diventata un oggetto in sé: l’universo dei mezzi tecnici è il territorio paludoso in cui stiamo affogando.

Siamo davanti a un sistema totalitario che ci fa balzare tra due diverse sensazioni costruite ad arte: da una parte l’innocenza del sistema tecnico, dei suoi mezzi e dei suoi scopi nel confronto di tutto ciò che vive, dall’altra una sorta di deificazione dell’individuo, avvallando la becera opinione che in tutti i casi la tecnica sia sottomessa alle più pie esigenze umane.

Forse dovremmo pensare ad una sottrazione di peso davanti al movimentato spettacolo del mondo, delle volte drammatico e altre grottesco. Ciò che abbiamo davanti sembra che stia diventando tutta pietra: una lenta e inesorabile pietrificazione a seconda delle persone e dei luoghi, senza risparmiare alcun aspetto della vita. La pesantezza della pietra, però, può essere rovesciata. Il peso della sopravvivenza sta in ogni forma di coercizione. La fitta rete di costrizioni finisce per avvolgere l’esistenza con nodi sempre più stretti. Forse solo la vivacità e la fantasia della sovversione, quando divengono sentite come necessarie, sfuggono a questa condanna.

Ogni ramificazione della scienza sembra ci voglia inculcare un mondo che si regge su entità sottilissime: il messaggio del DNA, gli impulsi dei neuroni, i fili piccolissimi che portano energia al mondo e le miriadi di connessioni dell’informatica. Chi agisce sul mondo esterno e sulle macchine presenta l’ennesima rivoluzione (tecno)industriale sotto forma di spasmodici flussi d’informazione che corrono su circuiti tramite impulsi elettronici. Le macchine di ferro continuano a sporcare il nostro sguardo ma obbediscono a funzioni senza peso. L’infinitamente piccolo, ora, è altrettanto concreto come i corpi solidi. Al contempo la poesia informale, la poesia delle infinite potenzialità, quella imprevedibile, così come la poesia che fonda la propria causa sul nulla, nasce da un irregolare che non ha dubbi sulla fisicità di ciò che lo circonda. Esiste una certa parità fra tutto ciò che sentiamo: contro ogni gerarchia di poteri e di valori, la qualità che definisce la diversità d’ogni cosa, pianta, animale e persona, non sono che tenui involucri di una sostanza comune, nuda e cruda, che se agitata con profonda passione può radicalmente divenire ostile alla conformità e trasformarsi in quel che vi è di più anomalo.

Esiste una leggerezza della pensosità che può far apparire la frivolezza come pesante e opaca. L’idea del mondo come costrutto di atomi senza peso ci colpisce perché dovremmo avere esperienza del peso delle cose: così come non potremmo ammirare la leggerezza della sovversione se non sapessimo ammirare anche la ribellione dotata di peso dinamitardo. Il sovvertimento può essere senza peso, un campo d’impulsi, ma può anche comunicare lo spessore dei corpi e le strade poco battute delle sensazioni. La leggerezza si associa con la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso. Chi vuole sovvertire questo sistema di morte può avere la stessa sostanza di cui sono fatti i sogni? Si, se la leggerezza pensosa diviene una risposta ostile al peso di vivere.

Alla precarietà delle tribù, come la siccità e le malattie, lo sciamano rispondeva annullando il peso del suo corpo, trasportandosi in un altro mondo, in un altrove percepito, dove poteva trovare la forza di stravolgere la realtà. In secoli meno lontani, dove la donna sopportava il peso più greve di un’esistenza fatta di continue costrizioni (e non che ora sia molto diverso...), le streghe volavano leggere nella notte su scope fatte di fili di paglia. Prima di essere intercettate dagli inquisitori, colpevolizzate per la loro diversità, queste visioni hanno fatto parte di un certo immaginario sedizioso, insieme al vissuto. C’è un nesso fra scarto desiderato e privazione sofferta. È questo ordigno antropologico che la sovversione perpetua.

Così, per affacciarsi al mondo annunciato, non dovremmo avere una speranza mista alla paura, ma ricercare tutto quello che saremo capaci di portarvici, come la continua negazione dell’incantesimo del tutto tecnico che agisce sullo scorrere del tempo, contraendolo e dilatandolo. La morte sta nascosta in uno degli elementi tecnici per eccellenza: l’orologio. La morte è il tempo scandito dal ticchettio, il tempo della separazione, l’astratto e ordinato tempo che rotola verso la sua oppressiva esattezza. Se la rettitudine è ciò che di più breve si può percorrere fra due punti fatali e inevitabili, gli sconfinamenti allungheranno il tragitto e se essi diverranno più complessi e fantasiosi, così leggeri da far perdere le proprie tracce, chissà che la morte non ci trovi più, che il tempo si smarrisca, e che potremmo rimanere celati quanto vogliamo. Affrettarsi lentamente contro il tempo delle prestazioni.

Si può ritornare al poeta della ginestra: l’ignoto è sempre stato più attraente del noto, l’immaginazione usata come consolazione dalle delusioni e dalle sofferenze esperienziali. Per questo chi immagina proietta il suo desiderio all’infinito, ma certe volte si ritrae spaventato nel definito. E il naufragar m’è dolce in questo mare, non è solo la chiusura di quel meraviglioso canto aperto all’ignoto dei sensi, ma è dolcezza vitale che prevale sullo spavento della morte, è l’incarnazione dell’idea della tensione all’infinito come spazio e tempo senza confini in contrapposizione alla cognizione empirica dello spazio e del tempo nella finitudine. È chiaro che chi vede lo spaventoso e l’inconcepibile non lo potrà definire come vuoto infinito, ma come esistenza fatta da un sistema di sistemi, in cui ogni singolo sistema condiziona gli altri e ne è condizionato. La sovversione vive solo se si pone degli obiettivi smisurati, anche al di là di ogni visibile e possibile realizzazione. Da quando la scienza diffida da ogni pensiero che le stracci il velo di divinità, facendo del settorialismo e dello specialismo i propri dogmi, la grande sfida della sovversione è il saper tessere insieme varie conoscenze e diversi linguaggi in una visione trasformatrice del mondo, sfiorando le tenebre per distruggere ogni catena.

Ogni giorno è sempre più chiaro che la catastrofe dei cambiamenti climatici si stia dirigendo verso una omicida irreversibilità. Al fianco, le continue invenzioni tecniche che vorrebbero ripristinare l’equilibrio perduto (?) rendono la catastrofe ancora più inevitabile, continuando ad alimentare un mondo basato sulla mercificazione e lo sfruttamento. Poiché si parla di un processo di devastazione ambientale che coincide con l’espansione industriale, insieme al saccheggio e alla mobilitazione di quantità di risorse energetiche (inedite per la storia di questa civiltà), al fine di espandere conquiste sanguinarie, si può dire che il dominio continua a fare oggi, democraticamente, quello che faceva in passato: sottomettere, opprimere, estrarre e addomesticare, ma in questo caso senza tanta opposizione luddista.

La devastazione di ciò che rimane della natura, la gestione della prima pandemia mondiale che ha rafforzato la sorveglianza in tutti gli aspetti della vita e la servitù partecipata, la scomparsa progressiva di molte specie animali, il progressivo deterioramento della biodiversità, l’artificializzazione dell’essere vivente, lacerano il cuore sensibile. Il pensiero sedizioso, però, corre al fatto che non sia più possibile fermare il cambiamento climatico e che attenuarne le conseguenze è solamente impiegarsi in un’assistenza allo Stato, nei suoi cambiamenti tecnici a carattere totalitario. Qui si riconoscono due fragilità: da una parte quella degli esseri viventi, spogliati da una serie di elementi tecnici, dove la propria unicità vacilla sempre di più. Dall’altra, un sistema tracotante di una parvenza di invulnerabilità che è letteralmente appeso a fili esili e strutture molto spesso minute, fragili solo a guardarle con una certa fantasia sovversiva. Allora riconoscendo la nostra fragilità, riappropriandoci di una certa alterità e scorgendo quella stessa fragilità che ci sta attorno, potremmo agire per far precipitare la situazione, senza cercare di aggiustare qualcosa che è ormai compromesso. Partire da una sensazione che tenda all’infinito: una libertà inconciliabile con il controllo.

La tecnica usufruisce del tempo storico per farlo coincidere con il tempo del mito. Allora la rivolta è l’insieme di atti che compiono un’immediata sospensione del tempo storico. La distruzione dei simboli del dominio sta nell’istante di libertà e nell’intuizione di conoscenza di ogni rivolta, quando in quel momento il mostro si rivela depositario di un mito, quello del potere. Distruggere le macchine in sé non può bastare (ma è un meraviglioso inizio...), perché esse si riformerebbero come teste d’idra, bensì bisognerebbe pensare e tentare l’apocalisse della liberazione per demolire la situazione che rende indispensabili e produttive le macchine. Ecco che lo scontro non sarà fra civiltà tecnologica e civiltà della decrescita felice, ma sarà un conflitto fra fragilità, ovvero una tensione liberatrice in perenne ostilità finché esisterà il dominio, per dar luogo a quella intrigante tabula rasa del mondo totalitario che sta dietro, davanti e nel cuore lacerato di ognuna.