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Inutile dire che quanto segue non ha alcuna volontà di completezza; lo stato di pienezza non può che essere precario per cui una prova di stampa tutt’altro che definitiva; un sentiero percorso di cui si è perduta la traccia. Un sentiero, lo si attraversa ma spesso dimentichiamo che è possibile suggerirlo, condividerlo, raccontarne; poi sta a chi l’attraversa. Suggerire un sentiero come occasione d’incontro, affinché si possa dare a quel sentiero nuova prosecuzione, altro attraversamento. Nuovo attraversamento e dunque nuove contraddizioni, mandando in malora ogni strada maestra, quella ripulita dalle erbacce per conto del potere e per mano della cultura, suo sgherro. Che cosa ha a che vedere tutto questo con la lettura?

Qualcuno definì l’ipotetico e indecifrabile destinatario di un testo come un «raro animale in via d’estinzione che con uno slancio di desiderio continuiamo a chiamare lettore». Il rischio di non riuscire a trovare il lettore, per chi scrive, di fronte al bombardamento quantitativo richiede di rovesciare il testo; ma sta, anche, a chi l’attraversa, provocarlo, scuoterlo, secondo le proprie capacità e stimoli sempre contingenti tentando di ridonare un differente destino al testo: pro captu lectoris habent sua fata libelli (secondo le capacità del lettore i libri hanno il loro destino). Un animale – poi raro non direi – che si chiede anche che farsene delle parole lette tra le pieghe dei bianchi e neri, tutt’altro che sigillati nella stampa, quando queste prendono una brutta piega dando vita ad esplosioni di fulmini in bottiglia. Leggere alzando la testa, mi permise di scorgere delle idee in ognuno di quei denti perlati sul sorriso di Berenice: que toutes ces dents étaient des idées. E così immaginai un Egeo che, solitario nella sua biblioteca di famiglia, non seppe che farsene di pile cadaveriche, finendo con lo strapparsi i suoi stessi denti.

In fondo alla pagina di un opuscolo del 1914 di Voltairine de Cleyre si legge: «Ciò di cui abbiamo bisogno è una vera valutazione del potere e del ruolo dell’Idea». Ella non solo intendeva il rovesciamento della formula «gli uomini sono ciò che le condizioni economiche producono» in «le condizioni economiche sono ciò che gli uomini producono». Suggeriva anche di cogliere – «se soltanto si esercitano i propri occhi a cercarle e a riconoscerle» – le Idee Dominanti che si sono imposte e che s’impongono nella contingenza storica, ma che nonostante tale potere d’imporsi non possiedono mai totalmente le condizioni per la squalificazione dell’idea in azione come «agente modificatore attivo, che reagisce sul suo ambiente». Che ne è di questa idea dell’idea in azione, che reagisce di fronte al testo? Quando il lettore si trova di fronte alle occasioni dettate dall’impossibile computabilità di un testo? Anche quando questo, per mano del suo autore o dell’analisi, viene a trincerarsi ad ogni costo nell’Idea Dominante del suo positivistico senso, troviamo i movimenti molteplici e incontrollabili di chi insegue le parole con dita e occhi irrequieti lungo le faglie di pagine stampate. Perché leggere vuol dire anche far lavorare il nostro corpo, quel corpo vivo, desiderante, che viene trascinato nel caotico movimento delle idee. Sì, la lettura, le idee, sono spesso potenziale ostacolo alla vita, se cristallizzate in quel movimento centripeto senza sbocchi, perché sappiamo benissimo che la vita è altrove.

Accade, quando si hanno davanti quegli strani bianchi e neri, che una qualche idea giochi il testo, laddove il lettore ha occasione di porre a incontro ciò ch’egli trova sulla superficie e negli interstizi delle pagine, nelle nuove tracce del sentiero, con l’affluire, il riversarsi, dei suoi stimoli. Si delinea così una ricerca delle differenze in cui si trasforma l’occhio del lettore attraverso il testo. La ricerca delle differenze, se siamo ancora nel sentiero, non è mera catalogazione o analisi sigillata ma accesso alla qualità del lettore e l’occasione di quest’ultimo di esserne coinvolto.

Il testo, nel frastuono delle analogie, può diventare oggetto di questa attività di ricerca affinché l’idea, ora punto di partenza incompleto del lettore, giochi con il testo reinventandolo ogni volta. Ma potrebbe anche essere che si riprenda il filo di un discorso rimasto agganciato fra i rami. E allora l’Idea che avrebbe dominato il testo risulterebbe infondata, senza fondamenta; scompare il suo autore rimettendo in gioco il rapporto tra testo e destinatario. Il testo si rovescia in prova di stampa, ogni volta rinnovata, nelle mani dell’individuo destinatario, che l’autore lo voglia o meno. È a questo provocare il testo che ci si riferisce, dove il destinatario attraversa il sentiero della lettura con la sua sensibilità irrequieta, partecipazione attiva prodotta nell’incontro con la lettura fatta di intertestualità, di interstizi, di faglie, di strappi. Qui, la possibilità all’idea di farsi un potente «dire fuori della verità».

L’idea che gioca o si lascia giocare non ha nulla a che vedere con il bisturi dei primi notomisti la cui dissezione doveva esercitare solo conferme sul contenuto delle auctoritates. Ortodossia della lettura sulla vita. Neppure, questo gioco, va inteso come semplice distrazione, rappresentazione ed imitazione, che con più facilità si nota nel su-e-giù di pollicini e pollicine. De Cleyre invitava col suo saggio ad attraversare le strade dei mercati e «guardare i volti della gente che passa» per rendersi conto di «quale idea [fosse] scritta sulle loro facce». Se puntiamo per un secondo i piedi all’oggi, quale idea sia scritta sulle facce di corpi piegati verso gli smartphone è impossibile saperlo realmente, ma i tormenti del corpo riflettono in parte la Grande Produzione di immagini.

Tolta l’oggettività, l’ineluttabilità del dogma e la dittatura dell’immagine, la lettura dà occasione di aprirsi ad una operazione deformante, una sorta di lavorio che si posiziona, ogni volta, prima del senso e scivola oltre il prescritto. Trovo questa possibilità in quella forma irrispettosa di interruzione del testo, attraverso pratiche brusche e discontinue di lettura in cui le pagine stampate possono trasformarsi da prodotto di consumo e d’intrattenimento, da cadavere sul tavolo da dissezione, da inconscio da penetrare, in qualcosa di simile ad uno strappo perpetuo. In tale strappo mi pare si possa cogliere il disvelamento delle condizioni di un linguaggio senza sbarramento, qualcosa più simile ad un incontro trasformativo, alquanto insofferente, dunque individuale, e mai pertinente. Occasione d’incontro su un sentiero che attraverso e costruisco ma che non mi appartiene, che non posseggo mai completamente, dove la ricerca delle differenze è un dialogo in perdita, rivelatore di assenze e limiti in cui malmeno ogni copertura scientifica.

Si coglie anche quella «linea d’ombra di un’idea», che secondo Voltairine de Cleyre è tracciata «su ogni cosa vivente». Idee morte che dominano corpi vivi e idee vive che regnano sulla decadenza e la morte: la fata di Hofmannsthal, la Donna senz’ombra ma che la desidera, è anche colei che già la possiede – la moglie del tintore – e che desidera liberarsene, lanciando il suo grido di rifiuto verso Barak e i bambini non nati. Lungo un sentiero, mentre il sole attraversa e agghinda d’oro i rami da un lato, non possiamo di certo nascondere dietro sguardi depurati che nel lato opposto si staglia la nostra ombra. «L’ombra della foresta non protegge, espone», espone alle scempiaggini sulla neutralità e l’inevitabilità di un sapere o una cultura sigillata nella macchina della Provvidenza della storia e nei magazzini delle idee.

Distanze, incontri, contraddizioni, hanno la forza di annientare la tradizionale passività della lettura – che ancora una volta sappiamo non essere vita, e del lettore, in quanto vita immaginabile con la sua intuizione, le sue idee. Queste ultime, percolanti dai propri inquieti frangenti, senza pretesa di completezza, senza delega di catalogazione si fanno strumenti per attraversare il sentiero. Non s’intende, con questo, comprendere e analizzare attraverso queste intuizioni, non è tecnica o metodo, ma piuttosto un tracciare un sentiero, un disvelamento d’orizzonti di senso plurali e qualitativi, in una perpetua attesa di verità. La chiarezza di chi ha espresso eloquentemente ciò che si vuole malmenare: «La stampa è il telescopio dell'anima. Così come questo strumento ottico, chiamato telescopio, avvicina all'occhio, ingrandendoli, tutti gli oggetti della creazione, anche gli atomi e le stelle dell'universo visibile; così la stampa avvicina e mette in comunicazione immediata, continua, perpetua, il pensiero dell'uomo isolato con tutti i pensieri del mondo invisibile, nel passato, nel presente e nel futuro. È stato detto che le strade ferrate e il vapore eliminavano la distanza; si può dire che la stampa ha eliminato il tempo. Grazie a lei, siamo tutti contemporanei». Dare occasione all’idea nella lettura è però una fuoriuscita dal tempo cronologico, afferrarla poi è rendere contemporanei testo e lettore nella possibilità d’agire; questo è ben lontano da ciò che intendeva il diplomatico francese nella citazione di cui sopra.

La “natura” dell’idea è quella di essere eterogenea, vaga: se pensiamo alla storia delle idee, ad esempio, ad essa la storia della scienza ha rimproverato proprio la vaghezza del suo “oggetto” di studio, il suo oltrepassare gli stabili limiti dei campi d’analisi della ricerca storica. È giunta alla storia delle mentalità con l’obiettivo di far emergere in superficie la l’Idea Dominante laddove si ricuce ogni strappo tra soggetto adattabile e la realtà sociale senza sbocchi (il saggio di de Cleyre conteneva già qualcosa che andava in questa direzione a mio parare).

Ma non è nell’analisi da roccaforte accademica e nella sua eloquenza quanto nell’imprendibilità qualitativa che cerco di cogliere l’idea, imprendibilità che la rende infondata, mancante di fondamenta, laddove è possibile una sovversione dell’autore lasciando al destinatario l’occasione di potersi incontrare nel testo. Destituito l’autore e il suo mito, si lascia all’idea il suo immaginario demitizzato e il suo potenziale destabilizzante nel chiaroscuro. L’idea non rivela il senso quantificabile ma attacca le rappresentazioni del senso, e a questo rosseggia il suo tono glaciale. Esonerata dal senso positivistico, l’idea non farà di essa un potenziale giudice, poliziotto, avvocato, politico, medico, critico. Come se la lettura rompesse la verità secondo la sua qualità deformante, senza bisogno di niente che somigli al linguaggio. Quando l’idea lavora con l’immaginario, ecco che essa libera il testo e viceversa. In quegli istanti l’idea, non lasciando alcun linguaggio al riparo, spazza via dalla lettura dio-legge-scienza; sfugge al dominio del discorso che gl’impone la sua rappresentazione; interrompe il testo a causa dell’affluire di una pluralità di senso quasi irriducibile, destabilizzando ogni volta il senso e il significato.

Leggere alzando la testa. E poi? Che fine fa l’idea che viene a trovarsi tra il corpo del lettore e il corpo del testo? «Gli effetti! Gli effetti! Ma gli effetti sono gli accidenti della vita, non già la vita! Una mano…non si collega soltanto al corpo bensì esprime e continua un pensiero che bisogna cogliere e rendere…». Il vecchio Frenhofer intendeva quella mano che scrive, dipinge, scolpisce, ma che dire di quella che sfoglia? O di quella che prima sfoglia e poi, semmai, desidererà scrivere, dipingere, scolpire. Lascio al lettore l’interpretabilità di ognuno di questi verbi della seconda coniugazione: «…afferrare i dardi dell’aria e scagliarli sul capo di qualcuno». Tra il corpo del lettore e il corpo testuale, l’idea che sopraggiunge disperde il testo materiale, gioca con il supplemento di senso al gioco dei rimandi e delle analogie.

Se restiamo sul corpo, conosciamo quello biologico, fisiologico, che appartiene alla scienza; e quello in relazione, sempre in assalto del mistero e trasportato verso uno spazio incerto. Le parole di un condannato o di una condannata a morte tra il XVI e il XVIII secolo si trasformavano in foglio stampato, perlopiù grezzamente per esigenze di dominio e commerciali. Si tratta di parole manipolate, negoziate, vendute, strappate, a quei corpi in attesa del patibolo dalle mani di confessori e stenografi, per dar centralità all’immagine della donna urlante di Industry and Idleness di Hogarth. Ma nonostante il portato di exempla di quelle parole per la società, ciò non ha impedito agli astanti di riversare il proprio odio e la propria saliva, in più occasioni, verso il boia e l’autorità. Le autorità mettevano in pratica ogni loro capacità comunicativa per dare una certa postura narrativa al corpo testuale definendo le posture del corpo del condannato nelle sue pieghe maligne ma il lettore era lì, pronto a mandare in malora lo spettacolo.

Occasione di un’interruzione, che è la scossa di un interrogativo verso il vuoto, che mette nella condizione di uno scopo trasformativo. Questa occasione si fornisce ma ci viene anche fornita e l’inquietudine nell’incontrare tale occasione si confronta con uno scarto irrecuperabile tra testo e lettore dove l’idea «dovendo vagar per aria suo proprio luogo, viene a cacciarsi sotterra e non trovando poi si presto l'uscita; poiché naturalmente non può star chiuso, pone ogni suo sforzo per uscirvi, & con questa forza viene a scuoter, e crollare così forte la terra».