#author La Banquise #title Opinione pubblica #lang it #date 1994 #notes Pubblicato in questa traduzione in italiano su *Anarchismo*, numero 74 (15-18) del 1994 Così come esiste una storia della «natura», esiste una storia della verità. L'idea che esistano delle leggi del mondo, dei fatti oggettici, in breve una «verità» da scoprire risale più o meno al Rinascimento. Questa nuova concezione era contemporanea alla scoperta della prospettiva in pittura. Fino ad allora, le verità - o al verità - non esistevano slegate dal significato che veniva loro conferito dalle realtà divine e terrestri. Astronomia e astrologia erano un'unica scienza. I «fatti» non esistevano in quanto tali. Quindi, l'informazione, la stampa - come l'opinione pubblica - non potevano comparire che in un mondo in cui si ritiene che la verità esista da sé, indipendentemente dal suo apprendimento. Finché lo spirito umano non si votò a quest'idolo possessivo - la verità oggettiva - i folli venivano considerati portatori di luce. Da allora si è rinunciato a decifrare il loro messaggio per privilegiare una conoscenza razionale, cioè verificabile, mentre la verità del folle non può essere recepita che a patto di concepirla nella sua singolarità. Racconto che unisce gli uomini e offre loro una presa sul mondo, il mito comporta l'adesione senza tuttavia spacciarsi per reale. Le peripezie del racconto leggendario non sono considerate «fatti»: ciò che conta è il messaggio di cui il mito è portatore. Se i miti religiosi resistono ancora oggi, è perché suggeriscono e ordinano - tramite il rapporto sociale che organizzano - senza che qualcuno creda alla loro esistenza come l'uomo moderno confida, fin dal Rinascimento, nella realtà dei fenomeni verificabili. Contemporanea alla scienza moderna, l'idea di verifica introduce una rottura decisiva nelle rappresentazioni umane del mondo e dell'uomo. In seno alle culture arcaiche, la natura intera parlava all'uomo. Poi sono arrivate le cosmogonie religiose, per cui la creazione realizzava un disegno esterno all'uomo. Ma, con l'avvento della visione scientifica del mondo, le cose cominciano ad esistere da sé, sole come l'uomo è solo; esse intrattengono rapporti retti da leggi che la verifica stabilisce e rivela. Si fa molta fatica oggi a comprendere come questo punto di vista che ormai appare tanto semplice sia stato così terribilmente difficile da acquisire: c'è voluto niente meno che il lavoro di sradicamento dell'uomo dal resto della natura. Il regno di questo sguardo esterno al mondo non permane a lungo senza riserve. Fin dalla fine del XIX secolo, il positivismo è entrato in una crisi che non ha ancora smesso di approfondirsi. Se il senso comune continua a poggiare bene o male sul positivismo, l'arte e la scienza non cessano di cozzare contro la stessa evidenza: la realtà si sottrae. Nella scienza del concreto per eccellenza, la fisica, lo scienziato constata che mentre osserva modifica l'oggetto della propria osservazione. Reazione a questa crisi, la perdita di fiducia nel reale conduce alla decadenza: mettere in gioco i riferimenti per quel che sono e non più per ciò a cui rinviano, moltiplicare i segni e i valori. Queste tendenze riappaiono sotto nomi diversi per tutto il XX secolo, mentre si esprime in differenti forme la nostalgia di una conoscenza non discorsiva, non separata dall'oggetto da conoscere. Come in altri ambiti, le manifestazioni più recenti segnano spesso una netta regressione in rapporto ad altre più vecchie. Il semplice paragone fra *Le Grand Jeu* del 1925 e gli affannati bigottismi dei beatnik del 1955 è sufficiente per rendersene conto. Estetismo decadente e nostalgia di una verità extrarazionale sono le malattie croniche di un mondo dove il sapere si è separato dall'esperienza umana immediata. L'idea di una superiorità della «verità» sull'oppressione, di una forza dei fatti che finirebbe per trionfare presto o tardi sull'oscurantismo e la dittatura, proviene dall'illuminismo che ha animato le lotte delle borghesia in ascesa prima di essere ripreso da un socialismo considerato più democratico del capitalismo. Nondimeno, «tutti gli sforzi della violenza non possono indebolire la verità, e servono a rafforzarla maggiormente. Tutte le luci della verità non possono nulla per fermare la violenza e non fanno che irritarla di più. Quando la forza combatte la forza, la più potente distrugge la più debole: quando si oppongono i discorsi ai discorsi, i più veritieri e convincenti confondono e dissipano quelli che contengono solo vanità e menzogna: ma la violenza e la verità non possono nulla l'una sull'altra» - così sosteneva Pascal, impermeabile all'ottimismo progressista che in breve tempo sarebbe divenuto l'ideologia dominante. Se l'oppressione, per quanto feroce sia stata, non è mai riuscita a soffocare il pensiero critico, quest'ultimo, per quanto è stato vero, non è mai, da solo, riuscito a sconfiggere l'oppressione. Se la filosofia dei Lumi ha finito per trionfare, ciò non è stato evidentemente perché raffigurava una verità assoluta, ma piuttosto perché serviva ad esprimere dei rapporti sociali che hanno sovvertito e dissolto man mano quelli vecchi. Per Pascal solo Dio poteva risolvere in ultima istanza l'insuperabile disputa tra la violenza e la verità. Chi crede che la verità dei fatti, in sé stessa, minacci l'ideologia dominante, è *al di qua* di Pascal. È vittima di un positivismo da tempo respinto sul terreno in cui l'ordine sociale affonda le proprie radici: quello del senso comune.
Ancora oggi, in effetti, la consapevolezza del carattere relativo di ogni verità risiede o nell’effimero artistico o sulle altezze eteree della scienza. L'idea che esista una verità dei fatti consolida l'ideologia dell’oggettività che serve questo mostro moderno: l’informazione. Per diverso tempo l’informazione non venne separata dall'azione. Le notizie sull’andamento del mondo erano riservate alle classi dirigenti. Le classi popolari disponevano di un sapere e di credenze direttamente pratiche, e le «notizie» che ricevevano non riguardavano che una sfera alla loro portata. Oggi, le classi «dirigenti» dirigono solo ciò che i meccanismi economici consentono loro di dirigere - non una gran cosa - e dispongono di poche informazioni in più delle altre classi. Ogni giorno, il proletario moderno viene bombardato da più informazioni di quante il suo antenato ne abbia ricevuto in tutta la sua vita. Ma questa massa di notizie, separate dalla sua vita attuale, prive di portata pratica, ha l’effetto di rendere il proletario moderno almeno altrettanto impotente, nell'immediato, del proletario d’altri tempi. Quest’ultimo veniva separato dai propri simili dalla polizia e dalla miseria assoluta; il proletario d’oggi, per ritrovare i suoi e riprendere possesso della propria vita, dovrà deturnare secondo i propri interessi l’informazione che attualmente serve solo a comunicargli i mille riflessi della sua impotenza. La società comunista è quella in cui produzione materiale e produzione della conoscenza non sono separate. Il sapere è diffuso in tutta la società. Ciascuno ha accesso direttamente alla conoscenza dei meccanismi che mette in gioco. L’informazione - più o meno seria - quella dei libri riconosciuti come quella della radio, ha sostituito la religione e la filosofia. E nel momento in cui la coesistenza fra l’individuo e la società è diventata un problema che è nata la filosofia. Essa recava una serie di risposte, in pratica soprattutto una maniera di porre la questione. Poi, quando una totalità indistinta come quella dei rapporti mercantili e salariali è giunta ad occupare tutta la scena, la filosofia si è ridotta a interrogarsi sulla propria agonia. Al suo posto sono sorte quelle mediazioni necessarie ad una vita sociale sempre più organizzata dal capitalismo. In una società in cui si perde la padronanza di ciò che si fa e di ciò che si è, si perde anche quella di ciò che si pensa. Così, i concetti globalizzati della società ci vengono poi proiettati come se fossero l’espressione della nostra profondità d’essere. Certo, prima del capitalismo le idee predominanti erano già quelle delle classi dirigenti, dello Stato, della religione. Ma occorreva ancora che l’operaio del XIX secolo recepisse le idee reazionarie e, all'occorrenza, che le riproducesse e le redistribuisse da sé, al bar, in chiesa, etc. Così come lo Stato è la materializzazione di una realtà nel contempo comune ed esterna agli individui, l’opinione pubblica viene generata dalla costituzione dei concetti individuali isolati in sfera autonoma. Mentre in economia, la produzione e la circolazione dei beni materiali sono separate, allo stesso modo la produzione e la circolazione delle idee sono distinte nell’opinione pubblica. E, proprio come in economia, la messa in comune si realizza a cose fatte. L'opinione pubblica, composta da opinioni private sugli affari pubblici, appare allora, all'inverso, fondatrice e creatrice di idee. Si ritiene che ogni riflessione derivi da questa realtà esterna, mentre non è che un prodotto sociale. Il capitalismo reca con sé questa mostruosa innovazione di una opinione democratica che è la somma delle idee dell'insieme degli individui spossessati di sé stessi ed espropriati del proprio pensiero. Al contrario della religione e delle correnti di pensiero che l'hanno preceduta, l'opinione pubblica non si presenta come una visione del mondo particolare. Viene semplicemente percepita come il ricettacolo di concetti dell’epoca. Più si spaccia per nutrimento dei fatti e sbarazzatrice dei presupposti ideologici, più è astratta e inattuata. Essa si astrae dalle condizioni reali di vita per dibattere senza che il dibattito abbia un legame con una pratica effettiva. Eppure il dibattito non si basa su qualsiasi cosa. Il suo terreno è ben quello della nostra esistenza reale. Ma c’è ancora tra la nostra vita e l’opinione — ciò che «tutti quanti» pensano — lo stesso rapporto di alienazione, di trasformazione in altro che ci opprime, che esiste fra il nostro lavoro e gli oggetti che consumiamo. E questo vale anche per chi produce direttamente l'oggetto o l’idea. L'’operaio dell’automobile può anche acquistare una macchina, ma rimarrà separato dal suo prodotto e da sé stesso. Allo stesso modo, e per quanto sovversivo si possa considerare, l’intellettuale che interviene all’interno dei mass media può esser sicuro che le sue idee, passate dalla macina dell'opinione pubblica, non serviranno che ad asservirlo un po' di più. L'esistenza di un «pubblico» va da sé nel mondo moderno, ma gli spettatori in un teatro dell’antica Grecia non erano più pubblico dei partecipanti alle feste campagnole. Il pubblico è nato con lo Stato moderno, con la polizia, con il romanzo e con la nozione di «Verità» nel senso attuale - in breve, non più di due o trecento anni fa. In Inghilterra, non prima del 1731 si vedrà comparire un mensile, il *Gentleman’s Magazine*, redatto e pubblicato da membri del ceto medio, senza il patrocinio né del mecenatismo di Corte né di qualsiasi importante personaggio. Fin dalla sua nascita, l’opinione borghese si concentra. I grandi librai e tipografi possiedono o manipolano i principali canali dell'opinione e questo «quasi-monopolio» (I. Watt) comporta un monopolio dei redattori. Si ripete all'epoca che questa concentrazione ha l’effetto di trasformare la letteratura in un semplice scambio mercantile. Daniel Defoe lo sostiene già nel 1725: la scrittura è diventata una branca importante del commercio inglese, con i librai come padroni e gli autori come impiegati. Malgrado le differenze, è tutta l'Europa del XVIII secolo a veder nascere un’opinione pubblica che, fin dall'inizio, si attarda a riflettere sulla propria sorte. Una volta scossa l'impresa della religione e dello Stato, i librai-editori imprenditori si moltiplicano in Francia e all'estero. La *Lettera sul commercio della libreria*, di Diderot, esprime la concezione moderna dell'editoria e affronta problemi della proprietà letteraria e della libertà di stampa. Questa concezione, che accorda più importanza alla circolazione del libro che alla sua redazione dimostra che, come ogni altra merce, il libro non viene prodotto tanto per il suo contenuto quanto per essere venduto. Acquirente di libri come di altri beni, l’uomo moderno ha dei «bisogni» di informazione e di evasione che soddisfa recandosi al mercato per comprarvi degli oggetti. L'opinione pubblica è la creazione di una rete di vincoli tra individui di poli rivali, in seno alla classe borghese in ascesa, nel corso della colonizzazione della società ad opera del capitale. Non appena quest’ultimo ha invaso tutto, non sono rimasti che gestori, e questa rete inter-individuale ha delineato un campo ed un «problema» della circolazione delle idee e dei sentimenti: la comunicazione. Ciò che era fluido, concorrenziale, diviene istituzione e monopolio, messa in relazione degli esseri per mezzo di organi speciali che producono informazioni: i mass media. Per essere stati in un dato momento direttamente a confronto con i «fatti» che evocano i media, ciascuno ha potuto verificare come queste «informazioni» che compongono l'immagine che l’uomo moderno ha del mondo brulichino di menzogne. Si deve per questo esigere dai giornalisti che siano onesti e che rispettino la propria «deontologia»? Si deve esigere una descrizione «veritiera» della vita moderna, pretendere - e, se è il caso, creare - una televisione, una radio, dei giornali, un cinema, «militanti»? Il rivoluzionario si deve appellare all'opinione pubblica? In un mondo su cui gli uomini non hanno alcuna presa, i media tagliano delle fette di realtà, dal punto di vista del potere (media infeudati), dal punto di vista dei poteri (media oggettivi), dal punto di vista dei candidati al potere e dei poteri potenziali (media militanti). La massa di informazioni così prodotta comporta dunque un certo numero di grossolane menzogne: la versione poliziesca del fenomeno “terrorista” per esempio, o le divagazioni giornalistiche sulla Cambogia, o ancora le scempiaggini militanti a proposito della Cina. Ma la menzogna essenziale proviene dalla separazione della realtà: sì isola, si accumula, si minimizza, si seleziona secondo una doppia logica - quella dei poteri e quella dello spettacolare. In ogni modo, la realtà così ricostruita viene sempre presentata in modo da assumere un solo significato, sempre lo stesso, quali che siano i fatti: si tratta di una realtà che gli uomini non possono afferrare che tramite la mediazione della politica o... dei media. Prodotto di un mondo che ci sfugge, lo spettacolo è là per informarci che questo mondo non può che sfuggirci. I media - come indica questo nome imbastardito, falso ritorno al latino per mezzo dello statunitense - sono ciò che ricollegano il separato. Prima del trionfo del capitalismo, le ideologie dominanti imponevano evidentemente il proprio punto di vista. Ma lo facevano direttamente, offrendosi come l’unica interpretazione. Oggi i media si presentano non ideologici, ossessionati dal fatto brutale e dai dati cifrati. Un tempo quando una ideologia prendeva piede, ciò avveniva senza tolleranza. Si poteva accettarla oppure no. Oggi, i media poggiano sul postulato dell’informazione, pretendono cioè di portare dati neutri ad un pubblico che si incaricherà di interpretarli. In realtà, laddove una volta correvano voci - lo si creda o no - i media fanno in modo che ai giorni nostri un evento non esista se non viene riportato, spacciato attraverso i media. Ogni evento deve essere doppiato dalla sua rappresentazione mediata. La società dello spossessamento radicale suscita uno sdoppiamento radicale. La realtà non ha realtà finché la sua immagine non viene presentata dai media. Durante i baccanali della democrazia, in periodo elettorale, la ricerca del doppio raggiunge un'intensità straordinaria. La democrazia è essa stessa una rappresentazione. Gli eletti sono una immagine dei cittadini. Nel corso della campagna elettorale, prima dunque che questa immagine venga fissata, i sondaggi ne danno in anticipo un’immagine. Lo stesso giorno del voto, infine, viene messo in piedi un complesso sistema per ottenere, appena qualche ora prima dei risultati ufficiali, una immagine ancora più precisa della futura immagine, attraverso una immagine del corpo elettorale (del resto, gli artisti d’avanguardia non fanno forse fotocopie del corpo umano...). Gli eventi mediati (scandalo attorno ad una trasmissione televisiva, affari Olocausto, Faurisson, etc.) non esistono che per i media. Ma la differenza è talvolta sottile tra realtà puramente reale e realtà puramente mediata... Nel corso di un’elezione presidenziale negli Stati Uniti, è stato possibile dire che Anderson era una pura creazione della stampa e della televisione. Lo si era fatto diventare un concorrente reale, l’artefice di una primavera conservatrice che, di fatto, non esisteva. Ma chi sono i Marchais, i Mitterand, gli Chirac, le Thatcher o i Kohl, se non portatori, riflettori di immagini differenti che non esistono e non funzionano che valorizzando la loro differenza? L'operaio del 1850 viveva nei caffè le sue idee conformiste o critiche. L'uomo moderno le vive in televisione. Vivere nei media significa letteralmente vivere nel mezzo, nello spazio intermedio, nel vuoto, nello spazio della circolazione - dopo avere dovuto dare otto ore della propria vita allo spazio della produzione. Noi siamo nel mondo della simulazione (il contrario del gioco): i padroni hanno i loro computer per guadagnare sempre più tempo simulando i processi economici; i potenti simulano i conflitti bellici che ci preparano, i proletari guardano la televisione, i loro figli si appassionano ai videogiochi che simulano tutto: il tennis, la guerra reale o galattica, la guida automobilistica. L'essenziale, in questi simulacri di giochi, è che si dia l'immagine di ciò che non si può fare. All’orizzonte dell’ipertrofia mediatica spunta una opinione pubblica disingannata di tutto e che, non avendo più nulla da dire, si limita a guardare. La simulazione è l’attività sognata di un universo il cui bisogno di attività reclama soddisfazione, ma si accontenta di un’azione in immagine, di un'immagine d'azione. Il film *Tron* annuncia un’epoca in cui non si ricerca più l'avventura attraverso la macchina - l’automobile degli anni '50 in *Furore di vivere* - ma direttamente nella macchina, in essa stessa. L’incubo di Charlot in *Tempi Moderni* — il proletario metamorfosato in ingranaggio meccanico - diventa un sogno eroico: metamorfosato in componente dall’ordinatore, l’uomo si dedica a tenzoni elettroniche. Comunicazione: posta in comune. Ma cosa resta, in *Tron*, di comune tra l’uomo e i suoi simili? Nulla, poiché l’uomo è sfuggito loro. Stanco di contemplare dei segni codificati su uno schermo, è passato lui stesso dall’altra parte dello schermo. Finalmente e completamente derealizzato, il suo unico piacere è ormai quello di amoreggiare con un pro gramma. Al contrario dell'attività, attraverso la quale l’individuo approfondisce la sua unione col mondo e con se stesso, la frequentazione dei media è disgregatrice. Il mondo dei media sottrae realtà e significato alle parole — non più imponendo loro un altro senso che gli sarebbe consono, cosa che si potrebbe ancora criticare, ma coltivandone qualsiasi, la molteplicità e la confusione dei sensi. Il trionfo della Civiltà dei media è completo quando questa riesce ad attirare la critica sociale sul suo terreno. Invece di domandarsi come cambiare la società ed attenersi ai fini così definiti, gli insoddisfatti si danno da fare per mobilitare i media e far sapere al pubblico cos'è la società e cosa conviene fare. In periodi di crisi come il nostro, si assiste al diffondersi di film la cui trama poggia sulla necessità di «allarmare» la stampa perché faccia il riassunto di ciò che è accaduto presso il pubblico, come se gli attori della storia (nei due significati di queste due parole) fossero incapaci di agire da sé. Bisogna e basta che «ciò si sappia». Una volta informato, il «pubblico» reagirà... Il trionfo quindi non consiste più nell’abbattere l'avversario, ma nello smascherarlo agli occhi dell’opinione pubblica. In queste condizioni, indirizzarsi all’«opinione pubblica» significa - lo si voglia o no - ricadere nella propaganda, vale a dire oscillare tra l'illusione positivista e la manipolazione. Si tratta pur sempre di «far prendere coscienza» a «persone» o a «operai». Non si esce dalla problematica leninista di una coscienza nata al di fuori delle pratiche di classe che bisogna immettere dall'esterno. Meno il propagandista si farà illusioni positiviste sulla sola forza della «verità» e più dovrà rassegnarsi a manipolare ricorrendo alle tecniche dello spettacolo: sensazionalismo, semplificazione debilitante, sloganismo... Il propagandista è per forza di cose un ingenuo pubblicitario, la propaganda è costretta a rimettere in gioco ogni volta la nascita dei media. Che cosa fa il militante, in effetti? Con volantini, con manifesti, tenta di convincere il «cittadino medio» o il proletario medio, o l’omosessuale medio, dell’urgenza di tale o tal altra questione, indipendentemente da una pratica comune o da ogni attività possibile con quelli che vuole raggiungere. Il propagandista si rivolge alla coscienza, alle idee del pubblico che guarda, domanda loro di riflettere, come il telegiornale li invita ad interessarsi di tale avvenimento. Scontento dei media dominanti, il propagandista si sforza di creare dei concorrenti (quali, ad esempio, le manifestazioni). Fa della pubblicità, più povera e meno bene. E quando non vuole creare i propri media, cerca di influenzare i media ufficiali, senza comprendere che questi deformano sempre il suo messaggio, fino al giorno in cui lo restituiranno nella sua totalità, quando avrà cessato di essere imbarazzante. La rivoluzione non sarà teletrasmessa. Così come la democrazia dispone di tutti i mezzi della dittatura e all'occorrenza sa utilizzarli, i media, che in tempi normali danno delle verità contradditorie, discordanti e confuse, durante i periodi di crisi sanno imporre una verità ufficiale. Cosa cambierebbe nella nostra vita se provassimo tutti piacere nel guardare e leggere da spettatori una descrizione veridica della nostra miseria? La televisione, i giornali, non mentono tanto per quello che sostengono quanto per il rapporto falso che istituiscono con noi: rapporto nel quale noi riceviamo informazioni senza agire, al di fuori di ogni attività. Quand’anche tutte le informazioni di un giornale televisivo fossero esatte, la relazione del telespettatore con queste informazioni resterebbe falsa poiché derealizzata: il telespettatore è accuratamente mantenuto in una situazione in cui il mondo e gli avvenimenti che lo compongono non sono più che una serie di informazioni. Al contrario, ogni volta che c’è una attività volta a trasformare il mondo, un'attività rivoluzionaria, la trasmissione di idee si stabilisce fra persone che sono già più o meno sulla stessa lunghezza d’onda, già impegnate in una stessa pratica, per quanto minima questa possa essere. Si è visto, nel maggio ’68, come le informazioni quando si integrano in una pratica possano trasformarsi in conoscenza immediata e servire da legame fra le persone. Evidentemente l’essenziale non era l’imbonimento dei commentatori radiofonici, ma il semplice fatto che annunciavano dove “qualcosa scoppiava”. Il testo rivoluzionario, anche se ha il formato (certamente non neutro) di un libro edito da Buchet-Chastel, tenta sempre di giocare su ciò che c’è già di *comune* fra l’autore e il lettore. La comunicazione di massa al contrario collega tra loro persone che non hanno altri legami delle loro astratte relazioni capitaliste. L’attività rivoluzionaria, anche se consiste nei periodi di calma, cioè quasi sempre, nell’espressione di idee, non è affatto una contrapposizione di idee ad altre idee, cosa che è propria dell'opinione pubblica. Essa oppone ciò che si potrebbe chiamare una indicazione di vita alla società attuale. Conoscere, significa condividere una formazione. La diffusione dei testi rivoluzionari serve sia ad instaurare legami che a chiarire idee... Quando il proletariato agisce, crea ben presto i suoi canali attraverso i quali circolano le conoscenze necessarie all’azione. Quando la sua azione rimane diffusa o balbettante, nei periodi di calma, il nostro punto di vista si riduce quasi soltanto a questo - un punto di vista - una visione, un'attitudine relativamente passiva, un fare quasi unicamente ridotto a un dire. Non ci viene permesso che di *dire* la nostra verità sul mondo. Perché non c’è verità al di fuori di un punto di vista che gli attribuisce un significato.