Non c’è un punto da cui partire, un elemento di certezza su cui basarci. Scrivo nella città del vento, e un vento forte scuote i rami del mandorlo davanti alla mia finestra. Ho appena finito di rileggere Del fare e dell’agire, adesso, nella stesura definitiva. La lettura mi ha lasciato impietrito. Dietro le parole, a volte noiose nella loro presunzione di dimostrare, avverto il dolore dei secoli, la sofferenza dei millenni, quello che l’uomo ha causato, il sangue e la cecità, e mi sembra straordinariamente ottusa la mia intenzione di dar conto di tutto ciò, come se al febbricitante corpo di un moribondo si chiedesse il permesso di staccare la spina.
Per capire fino in fondo il rapporto tra “teoria” e “azione” bisogna infrangere la legge. Non quelle piccole sconvenienze che tutti affrontiamo quotidianamente, più o meno un divieto di sosta, ma proprio qualcosa di serio, l’intrapresa di un viaggio inesorabile, destinato non ad una meta da raggiungere, ma ad una celebrazione. La vita di ognuno, ad un certo punto, comincia a scandire poche ore significative, forse nemmeno ore ma minuti, ed è in questo tempo così condensato che occorre celebrarne il rito massimo, cioè vivere. Spezzare la misura è il primo passo per unificare i due estremi dell’agire e del pensare. Restando gomito contro gomito con il giudice di pace non usciamo dalla distinzione, dalla mitologia che separa cercando un luogo dove posare lo sguardo, un luogo della custodia e della tranquillità. Nulla da celebrare in queste località affollate, dove nessuno è disposto a giocarsi la vita.
Chi coglie se stesso nel modo in cui pensa la vita, e nel pensarla la vive, vuole andare lontano, non si ferma alle semplici acquisizioni, alla conoscenza centellinata della quantità che sopravvive a se stessa, egli sa che ogni cognizione è erronea nel momento che viene fissata come una farfalla morta nel proprio loculo tassonomico, sa che occorre troncare la misura che sta di fronte all’oggetto compiuto, iniziare il pellegrinaggio che dal singolo elemento, dalla piccola acquisizione, salpa verso terre lontane, inattingibili, forse, ma ai confini del possibile. Il possedere un dato informativo (quanta involontaria ironia in questa parola che governa il mondo) indica sempre la presenza di un sottostante vuoto, l’orgoglio lo nasconde, ma per quanto deformato il contenuto di miseria che finisce per trapelare. È inutile negarlo.
Se la cultura insegna il rispetto delle istituzioni, non voglio accettarla. Ma non posso metterla fuori di me come le stelle marine fanno col proprio stomaco. Essa rimane dentro e mi arroventa il cuore, parla continuamente di violazione dei diritti degli uomini da parte di una minoranza dominante. Mi spiega i motivi per cui questa violazione è stata perpetrata e continua ad esserlo, mi fa vedere i mezzi con cui questo crimine è stato e continua ad essere commesso. Per un certo tempo l’ascolto, e mi faccio affascinare dalle sue mille deduzioni, dal senso di sicurezza che mi dà, dalle asserzioni apparentemente prive di incrinature, dal modo conseguente con cui mi conduce per mano, con cui attutisce i moti dell’animo, con cui, alla fine, facendomi vedere il male del mondo, mi conforta e mi concilia al di là di ogni possibile equivoco. Se rifiuto le istituzioni devo rifiutare gli uomini che rendono possibili le istituzioni. La cultura mi soffia all’orecchio le responsabilità di alcuni di loro. Ed è una grande cosa. Posso ergermi a giustiziere, ma poi mi accorgo che l’eccesso, l’esuberanza della vita sta altrove. Posso colpire la testa di questa intensità tragica, ma è come se colpissi la coda. Non ci sono né testa né coda. La responsabilità dei crimini continuamente commessi si ripartisce equamente su di tutti. Tutti, anche chi subisce lo sfruttamento e le peggiori angherie, anche quest’ultimo, escluso fra gli esclusi, è responsabile pure lui, se non altro perché non si ribella e, alla fine, se proprio le condizioni della ribellione sono impossibili, perché non si uccide. Vivere da schiavo non è vivere, tanto vale morire.
So che l’eccesso mi acceca e vorrei tornare a vedere, tornare alle mie amate distinzioni. Qui sta il male, là sta la libertà. Non è facile. Per lo stesso motivo dovrei accuratamente distinguere fin dove arrivo con la comprensione di quello che accade e dove comincio ad agire. Questo passaggio non lo vedo, lo cerco ma non lo vedo. Forse non esiste. Che farmene allora della teoria? Se tutti siamo colpevoli, dove sta il nemico? Devo trovare un filo in questo labirinto, aprire fino in fondo la ferita che sta lacerando la mia integrità.
Il riconoscimento del proprio ruolo e della propria responsabilità è il punto da cui partire, la teoria guida, se preferite. Se fosse possibile conservare l’obiettività della distinzione ognuno saprebbe dove colpire, i nemici passeggerebbero per strada con un bel contrassegno sul petto e sarebbero allora perseguibili per decreto. Preferisco il mio isolamento, la cecità che mi blocca sulla soglia della comprensione e mi fa cercare a tentoni un’apertura che sembra non ci sia. Chiamandomi in salvo, dichiarandomi non responsabile dei crimini del dominio, ma solo parte danneggiata, offeso ed escluso (questo soltanto e non altro), mi chiudo alla comprensione effettiva del rapporto di classe e mi trincero dietro le sclerotizzazioni teoriche, posso aspettare che l’azione accada per come deve accadere, che tutti si muovano per com’è “giusto” che sia, nel frattempo posso anche farmi i fatti miei, vivere dignitosamente, mettere su famiglia, ecc. Tutto ciò è scoraggiante.
Colgo il nesso tra teoria e azione solo quando mi penso “in azione”, cioè mi vedo agire, e questo vedere è un pre-vedere, cioè è uno dei momenti teorici che mi assistono quando ormai non ho più nulla da mettere in salvo, essendomi messo a rischio completamente. Se dovessero intervenire prima, se quel pre-vedere fosse una visione temporalmente antecedente, non avrebbe mai fine e diventerebbe una salvaguardia, una sicumera, un alibi.
Il segreto dell’azione è quindi l’unità di teoria e pensiero, di conoscere e agire, unità che ha come contenuto l’oltrepassamento della teoria nell’azione e dell’azione nella teoria. Non un luogo preciso in cui si sono accumulati sufficienti mezzi per agire e nemmeno un momento in cui le azioni, significandosi una con l’altra, forniscono esse stesse una teoria. Se uno di questi due momenti dovesse prevalere, sia quello teorico che quello pratico, sarebbe un “sacrificio” della parte costretta a cedere. E ogni sacrificio è un delitto contro la vita. Ecco perché l’unità di teoria e azione è “incomunicabile”, resta un mistero che può sciogliersi solo mettendosi a rischio senza condizione. Rinunciando a una parte di noi stessi (e perciò stesso salvando l’altra) si è perfettamente compresi, si “dice” qualcosa, si prospetta una teoria (ma non si agisce), oppure si agisce (ma non si prospetta una teoria).
La comunicazione è sempre parzialità, un’ombra sensibile che cala davanti alla realtà, uno schermo che mette a tacere il desiderio senza soddisfarlo. Ecco perché quando sono capìto c’è un qualcosa che lacera, come un senso di vuoto. Non stanno comprendendo quello che io sono, ma solo quello che sono riuscito a dire. L’unità che ero, sia pure per un attimo, si è dissolta a causa della presenza altrui, e si è rivelata accessibile all’altro, una parzialità comunicativa, una blandizia che ha sospeso la messa in gioco, la serietà della messa in gioco. Gli altri capiscono quello che vogliono capire, non si uniscono a me in un agire comune (tranne rari casi), ma mi utilizzano mandandomi avanti come capro espiatorio, animale sacrificale. Anche gli altri cercano l’unità di teoria e azione e anche loro non la trovano se non giocandosi fino in fondo.
Non è agevole restare in bilico, fermi tra rottura e integrità. Bisogna decidersi, non si può lasciare che all’infinito il pensiero trapassi nell’azione e l’azione nel pensiero. L’inesauribile attesa deve sospendersi in un punto di vista, in una fissità che illumina, ma non per questo è meno mortale, o in una agevolezza operativa che conforta, pur restando lo stesso mortale. Insomma ci sentiamo tranquilli solo quando traffichiamo cadaveri. L’azione che ci sta davanti ci pare più semplice e fattibile quando non siamo invasi da problemi teorici (o, peggio ancora, morali) e, viceversa, la teoria che consideriamo comprensibile appare perfettamente delineata quando non ci sentiamo sollecitati a metterla in pratica. So bene che questi punti di vista nascondono un miserrimo relativismo, ma è la nudità delle cose, senza nessun belletto, la nudità delle cose nel loro insormontabile disgusto.
Se spezzo questo cerchio di miseria, se metto sotto tiro il controllo che continua a intristirmi, di colpo le cose cambiano in un prodigioso mettersi in movimento di tutto il mio essere. So bene quello che si prova a giocarsi tutta la posta, tutta in una volta, senza vie d’uscita.
L’azione, puntualmente, comincia qui.
Trieste, 8 giugno 2000
Alfredo M. Bonanno