Là, dove le idee diventano pericolose
La fame reale o metaforica può restar fame mille anni covare fame e figliare fame ma la collera la rabbia è un virus di fuoco che può in ogni momento non si deve dimenticare questo fatto che può in ogni momento rovesciare l'asse del mondo
Giorgio Cesarano
I giorni del dissenso, 1968
In noi non alberga nessuna illusione necessaria, per quanto romantica e consolatoria, di un mondo desiderabile che un giorno potremo scoprire esistere al di là di noi stessi. Gli storicismi hanno da sempre lastricato le strade dei massacratori, di coloro che, gloriandosi col vello del Vero, schiacciavano al contempo con pugno di ferro. Non staremo mai dalla parte dei vincitori perché siamo vinti perfino in noi stessi. Siamo sconfitti dall'enormità dell'idea di libertà che ci accompagna quotidianamente, siamo umiliati dalla nostra inadeguatezza, siamo schiacciati dalla nostra inaffidabilità. Circondandoci delle agiografie altrui lasciamo scorrere la nostra esistenza, ci ritroviamo ad essere imbrattatori di carta con avventure a cui non abbiamo preso parte. E cerchiamo di farcelo bastare.
Al contempo cova dentro di noi una tensione, una tensione anarchica che ci rintuzza, ci impedisce di addormentarci definitivamente. Certo, siamo sconfitti, ma se abbiamo ancora qualcosa in noi, è da questa rabbia che continueranno a sbocciare i nostri tentativi di attaccare, giorno dopo giorno, il dominio. Questa tensione è il segreto di tutto. Questo desiderio, questa volontà, questa determinazione. Il pensiero, diventa azione. L'idea diventa attacco. E viceversa l'attacco diventa idea: l'azione tramuta il pensiero. Il resto sono opinioni. Ne siamo sommersi, quotidianamente. Parole ridondanti che chiedono solo di essere propagate, come la gramigna, soffocando ogni pianta che ambisce ad un destino diverso. Purtroppo nel verde tutto si confonde. Ma ciò che ambisce a lasciare un segno non dovrebbe essere confuso con quanto ambisce soltanto a riprodursi, a continuare ad esistere, a testimoniare che i nostri processi biologici sono ancora pienamente attivi.
Certo, ci sono idee, ovvero modi di cambiare la realtà, che sono infinitamente distanti dalla sensibilità anarchica. Non si può pretendere di avere il monopolio, l'arroganza del controllo. Eppure, si può rivendicare un metodo, una scelta comportamentale, un approccio all'esistenza: che ciò che si pensa deve riflettersi sul mondo, nel modo più radicale ed incisivo possibile. Ed è per questo che nell'agire, nell'alimentare la nostra tensione anarchica, possiamo per pochi istanti sperimentare la qualità diversa del vivere sapendo che ciò che abbiamo nella testa è un'idea - e non un'opinione, e ciò che abbiamo tra le mani è la nostra vita pronta ad esplodere - e non il mezzo di produzione a cui siamo stati assegnati.
Un altro mo(n)do è possibile
Appare al contempo chiaro che al di là di noi esista un mondo fuori. Questo mondo ci impone di vivere in un certo modo, di rapportarci agli altri in una certa maniera, di accettare lo stato di cose presente. Tuttavia questo mondo cambia continuamente, proiettando le proprie mutazioni sul contesto sociale, innescando le trasformazioni sociali che stanno avvenendo a ritmo forsennato nel nostro circostante. Esse però necessitano, per essere affrontate, di uno sforzo immaginativo nuovo. Abbandonare i vecchi modi di fare, rivalutare ciò che si dava per assodato o per sorpassato, capire quali forze plasmano e come la realtà. Nonché perfino interrogarsi intorno alla questione se ne esista ormai ancora una realtà o meno.
Prendiamo ad esempio l'uso di internet. Da trampolino di lancio per la diffusione globale di idee e pensieri si sta trasformando sempre di più in una rete che ci intrappola nell'acquietamento: pubblicare online diventa condizione sufficiente per valutare criticamente le proprie iniziative: se la possibilità di leggere è stata offerta, qui termina il compito di chi insegue l'insurrezione. Egualmente, i movimentismi ed il cercare di costruire partiti, piattaforme, avanguardie o roboanti soggetti rivoluzionari offrono il fianco a ben più gravi vicoli ciechi per l'azione: la costruzione di una propria mitologia, una continua e rassicurante apologia delle proprie scelte, la creazione di una storiografia nella quale porsi "dalla parte giusta", l'accettazione della politica e delle dinamiche tribali di gruppo come modo di rapportarsi con gli altri individui, la sacralizzazione della propria figura e del proprio ruolo in un processo rivoluzionario conoscibile ed organizzabile a priori del proprio svolgersi.
Nonostante il Mondo Nuovo nel quale viviamo, il punto di partenza dal quale interrogarsi è tuttavia sempre lo stesso, invariato: come comunicare la prospettiva della possibilità di un modo diverso di vivere e di rapportarsi col mondo? Attenzione, non il realismo di questa prospettiva, non il suo necessario divenire in funzione di chiare ed evidenti leggi sociali. Solo la possibilità che possa esistere, in qualche tempo ed in qualche luogo, qualcosa che sia più degno rispetto a quanto oggi con la sua esistenza pesa sulle nostre teste. Come il sogno non ha bisogno di rassicurazioni e certezze - altrimenti staremmo parlando di previsioni -, come l'etica non ha bisogno di un mondo fuori che la giustifichi e la supporti - altrimenti staremmo parlando di morale -, così questo desiderio di altro ha bisogno solo di individui appassionati che, scavando dentro sé stessi e nel modo in cui ipotizzano e costruiscono relazioni con la realtà esterna a loro, sappiano affondare pensieri e azioni nella melma che li circonda. Prendendosi tuttavia, e al di là del bene e del male, la responsabilità di essere misura di tutte le cose. Con buona pace degli spettri eusociali che hanno popolato per millenni la nostra percezione del mondo, degli altri e di noi stessi.
La gioia del qui e ora contrapposta all'escatologia, il valore della realtà rispetto a quello della virtualità, l'enfasi sull'incontro tra individui piuttosto che tra gruppi, l'equilibro dinamico tra creazione e distruzione, ovvero come districarsi tra la distruzione necessaria e l'autonomia impossibile da sperimentare finché esisterà questa società. Il problema della responsabilità, tra quelle che sono le nostre azioni e la condizione sociale data nel contesto in cui ci troviamo ad agire.
Tra idea e opinione
Il propagandista si rivolge alla coscienza, alle idee del pubblico che guarda, domanda loro di riflettere, come il telegiornale li invita ad interessarsi di tale avvenimento. Scontento dei media dominanti, il propagandista si sforza di creare dei concorrenti (quali, ad esempio, le manifestazioni). Fa della pubblicità, più povera e meno bene. E quando non vuole creare i propri media, cerca di influenzare i media ufficiali, senza comprendere che questi deformano sempre il suo messaggio, fino al giorno in cui lo restituiranno nella sua totalità, quando avrà cessato di essere imbarazzante. La rivoluzione non sarà teletrasmessa. Così come la democrazia dispone di tutti i mezzi della dittatura e all'occorrenza sa utilizzarli, i media, che in tempi normali danno delle verità contradditorie, discordanti e confuse, durante i periodi di crisi sanno imporre una verità ufficiale.
Cosa cambierebbe nella nostra vita se provassimo tutti piacere nel guardare e leggere da spettatori una descrizione veridica della nostra miseria? La televisione, i giornali, non mentono tanto per quello che sostengono quanto per il rapporto falso che istituiscono con noi: rapporto nel quale noi riceviamo informazioni senza agire, al di fuori di ogni attività. Quand’anche tutte le informazioni di un giornale televisivo fossero esatte, la relazione del telespettatore con queste informazioni resterebbe falsa poiché derealizzata: il telespettatore è accuratamente mantenuto in una situazione in cui il mondo e gli avvenimenti che lo compongono non sono più che una serie di informazioni. Al contrario, ogni volta che c’è una attività volta a trasformare il mondo, un'attività rivoluzionaria, la trasmissione di idee si stabilisce fra persone che sono già più o meno sulla stessa lunghezza d’onda, già impegnate in una stessa pratica, per quanto minima questa possa essere. Si è visto, nel maggio ’68, come le informazioni quando si integrano in una pratica possano trasformarsi in conoscenza immediata e servire da legame fra le persone. Evidentemente l’essenziale non era l’imbonimento dei commentatori radiofonici, ma il semplice fatto che annunciavano dove “qualcosa scoppiava”. Il testo rivoluzionario, anche se ha il formato (certamente non neutro) di un libro edito da Buchet-Chastel, tenta sempre di giocare su ciò che c’è già di comune fra l’autore e il lettore. La comunicazione di massa al contrario collega tra loro persone che non hanno altri legami delle loro astratte relazioni capitaliste. L’attività rivoluzionaria, anche se consiste nei periodi di calma, cioè quasi sempre, nell’espressione di idee, non è affatto una contrapposizione di idee ad altre idee, cosa che è propria dell'opinione pubblica. Essa oppone ciò che si potrebbe chiamare una indicazione di vita alla società attuale.
Conoscere, significa condividere una formazione. La diffusione dei testi rivoluzionari serve sia ad instaurare legami che a chiarire idee... Quando il proletariato agisce, crea ben presto i suoi canali attraverso i quali circolano le conoscenze necessarie all’azione. Quando la sua azione rimane diffusa o balbettante, nei periodi di calma, il nostro punto di vista si riduce quasi soltanto a questo - un punto di vista - una visione, un'attitudine relativamente passiva, un fare quasi unicamente ridotto a un dire. Non ci viene permesso che di dire la nostra verità sul mondo. Perché non c’è verità al di fuori di un punto di vista che gli attribuisce un significato. [1]
Dovremmo stare ben lontani dall'approccio militante dello spingere altri individui a passare all'azione. Non siamo imbonitori da fiera paesana, compilatori di splendidi testi analitici per guadagnare alla nostra non-organizzazione il maggior numero possibile di persone. Noi esprimiamo molto più semplicemente ciò che è la nostra prospettiva sul mondo e sul modo per trasformarlo: autorganizzazione, conflittualità permanente, attacco. Se chi leggerà queste pagine troverà una risonanza del proprio mondo, allora troverà strumenti da usare per conoscersi, capirsi e scoprirsi. Chi banchetta ai piedi del potere, accontentandosi delle comode briciole che cadono dal desco, non presta attenzione tanto all'urgenza che all'irreversibile. Smettiamola.
Scriviamo piuttosto per noi stessi, per ciò che ci appassiona, per ciò che desideriamo. Comunichiamo per affinare la nostra visione, per creare opportunità di incontro e di discussione reali, che rompano la quotidianità, che riescano ad avere in loro stesse il senso di ciò che facciamo. Ma non in termini solipsistici, semplicemente egoriferiti: la creazione di un progetto editoriale dovrebbe essere il risultato di due elementi, ovvero la progettualità rivoluzionaria di chi partecipa, che individualmente lo ritiene uno strumento utile alla propria prospettiva, e l'analisi del contesto sociale e delle sue peculiarità che trovano un riflesso nelle scelte che caratterizzano e rendono unico ciò che stiamo facendo.
Se Cronaca Sovversiva veniva stampato negli Stati Uniti in lingua italiana non è per scelta casuale, ma per evidenti considerazioni riguardanti il rapporto tra la diaspora anarchica italiana e coloro che erano rimasti in Italia, il ruolo della lingua tra gli emigrati italiani negli USA, le difficoltà nel censurare una lingua che non veniva compresa. Al contempo, la rete di distribuzione, gli scambi epistolari, le polemiche tanto quanto i piccoli annunci servivano per chi la scriveva a portare avanti la propria prospettiva di irriducibile inimicizia con quel mondo.
Se Canenero lo leggiamo ancora oggi è perché ha usato un linguaggio diverso e proponeva non solo una visione differente rispetto al crollo dell'URSS, la società post-industriale, il ruolo dell'individuo nel processo insurrezionale in quanto questi temi erano il risultato di astratte considerazioni filosofiche, ma perché vedevano nella loro realtà contemporanea l'esigenza di affrontare quelli che erano trasformazioni storiche e radicali del modo di vivere.
Un esercizio di stile.
Quale progetto editoriale oggi?
Non esistendo più le strutture di sintesi, appare sempre più difficile comprendere ciò che avviene lontano dai nostri occhi, inquinato poi dai media. Per questo sarebbe importante dare nuova linfa a relazioni internazionali che portino notizie, analisi, prospettive, palesando pensieri che rifuggano tanto la mitopoiesi che il vittimismo, tanto l’innocentismo che il militantismo. La solidarietà sta nei sogni e nei progetti rivoluzionari, non nei proclami.
Buoni propositi, Soffi e Graffi n°7, 2022[2]
Proviamo a fare quattro considerazioni relative allo stato presente, partendo da un piano astratto/generale fino a giungere a quello individuale:
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i processi di approfondimento della dominazione sono in continuo ma differenziato dispiegarsi a livello globale, tra dominazione formale, reale e l'ipotesi di quella materiale
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attualmente coesistono con molti attriti forze divergenti e convergenti rispetto alle dinamiche di governo, produttive e tecnologiche, spingendo alcune verso l'unificazione altre verso la frammentazione dello spazio
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per l'appunto, a livello europeo ci troviamo di fronte ad un processo (incerto nel suo dispiegarsi) di integrazione politica, economica e tecnologica dei diversi stati, alimentato dallo sforzo bellico del riarmo
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la solitudine e l'ipercomunicazione virtuale coesistono nelle bolle informative e relazionali in cui siamo rinchiusi e a ciò si aggiunge la continua erosione della percezione delle proprie possibilità separate da quelle del sistema sociale nel quale viviamo
Se questi sono alcuni elementi contestuali che potrebbero influenzare un ipotetico progetto editoriale, proviamo ora a dare un'occhiata ad alcune delle difficoltà che potrebbero esserci oggi nello sviluppare una progettualità rivoluzionaria a fronte di una realtà storica e sociale che mette profondamente in crisi il tentativo di darsene una.
Ad esempio, non si riesce ad accrescere la crepa tra l'ideologia della prematura sentenza della fine della storia e la favola del migliore dei mondi possibili provocata proprio dal riattivarsi della storia stessa. Oppure potrebbe esserci il fatto che siamo rimasti intrappolati in una fitta rete di bisogni, impegni e doveri, e tutto ciò senza aver mai avuto la forza ideale di tranciarli vivendo adeguatamente di passione e desideri e non solo parlandone o scrivendone. Abbiamo subito inermi la rassegnazione di un tessuto sociale che si è lasciato modellare dalle norme anti-COVID senza troppa renitenza. Nei nostri simili, dove speravamo di trovare amore per la vita, ci siamo scontrati con la paura della morte o dell'esclusione dalla vita pubblica: ed in questo arrocco tra il pensiero radicale e le politiche di governo non è rimasto alcuno spazio per il desiderio di libertà. Così come non c'è spazio per la libertà nelle parole d'ordine dei movimenti riformisti e gradualisti o nell'ammiccare ad essi. E se l'acqua intorno a noi comincia a puzzare per la putredine, cos'altro fare se non seguire l'istinto di saltarne fuori?
Ci siamo trovati così a doverci destreggiare tra due errori parimenti fatali: la disillusione e la procrastinazione. Da un lato rimandare il proprio sentire ad un domani diverso, migliore, in cui certe idee avrebbero trovato il terreno giusto per crescere e germogliare. Dall'altro guardare attoniti al quotidiano bombardamento. Talvolta ci siamo trovati semplicemente a proseguire quanto già facevamo: riprodurre l'ambiente militante, con i suoi milieu e i suoi happening, sperando forse che nella quantità sarebbe avvenuto il salto qualitativo verso prospettive migliori, nonostante fossimo, almeno a parole, consci del fatto che all'ombra di una qualsiasi bandiera non ci può essere aria fresca per chi voglia respirare unicità.
Tralasciando quindi coloro per cui l'agire anarchico è riproduzione del fare militante, occorre capire come districarsi tra questi due ambiti umani del sentire. Perché se l'anarchismo ha la pretesa di reinventare il concetto stesso dell'umano, frammentandolo in una miriade di significati diversi quanti sono gli individui stessi, così appare chiaro come si debba anche noi cercare di oltrepassare quanto attualmente di umano, troppo umano, sentiamo. Perché viversi una lotta che possa comportare anche la rinuncia alla vita è qualcosa di altro rispetto ai miti del dovere. Perché senza questa tensione altra non è possibile fantasia che permetta di reinventare ogni cosa. Non per cambiare o adeguarsi, non per accettare il circostante e subirlo inermi, non per rinunciare a sentirsi sé stessi perché altrimenti ci sarebbe impossibile sopravvivere alla normalità famiglia-lavoro-social, ma per continuare ad esistere nell'espressione delle proprie idee.
Insomma, come si diceva, le idee di cui parliamo e di cui vorremmo scrivere in quanto anarchici sono qualcosa che colpisce e trasforma il mondo, non semplice espressione aleatoria di sé. Quello è il luogo, la trasformazione nella qualità, in cui l'ordine costituito può essere messo in pericolo da un agire anarchico.
[1] Pubblicato in questa traduzione in italiano su Anarchismo, numero 74 (15-18) del 1994
[2] Reperibile online su https://anarchistlibraries.network/entry/78747